LA VITA DI LUIGI PIRANDELLO

LA VITA DI LUIGI PIRANDELLO

LA VITA DI LUIGI PIRANDELLO


Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 presso Girgenti (ribattezzata poi Agrigento sotto il fascismo), da una famiglia di agiata condizione borghese (il padre dirigeva alcune miniere di zolfo prese in affitto) e di tradizioni risorgimentali e garibaldine. Dopo gli studi liceali si iscrisse all’Università di Palermo, poi alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma. In seguito ad un contrasto sorto con un professore si trasferì all’Università di Bonn, dove si laureò nel 1891 in Filologia romanza con una tesi su Suoni e sviluppo di suoni nel dialetto di Girgenti. Nel frattempo aveva già iniziato la produzione letteraria, scrivendo poesie e una tragedia. L’esperienza degli studi in Germania fu importante per lo scrittore, perché lo mise in contatto con la cultura tedesca e in particolare con gli autori romantici, che ebbero profonda influenza sulla sua opera e sulle sue teorie riguardanti l’umorismo.

Dal 1892, grazie a un assegno concessogli dal padre, si stabilì a Roma, dedicandosi interamente alla letteratura. Strinse legami con il mondo culturale romano, soprattutto grazie al letterato siciliano Ugo Fleres e a Luigi Capuana. Nel ’93 scrisse il suo primo romanzo, L’esclusa (pubblicato solo più tardi, nel 1901) e nel 1894 diede alle stampe una prima raccolta di racconti, Amori senza amore. Nello stesso anno aveva sposato a Girgenti Maria Antonietta Portulano, tornando poi a vivere con la moglie a Roma. Dal ’97 iniziò come supplente l’insegnamento di lingua italiana presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma, dove poi dal 1908 divenne docente di ruolo. Nel frattempo pubblicò articoli e saggi su varie riviste, tra cui il prestigioso «Marzocco», che aveva tra i collaboratori anche Pascoli e D’Annunzio, e scrisse la sua prima commedia, II nibbio (1896), che riprese più tardi col titolo Se non cosi (1915; dal ’21, La ragione degli altri).

Nel 1903 un allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto il suo patrimonio e la dote stessa della nuora provocò il dissesto economico della famiglia. Il fatto ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore: alla notizia del disastro la moglie, il cui equilibrio psichico era già fragile, ebbe una crisi che la sprofondò irreversibilmente nella follia. La convivenza con la donna, che era ossessionata da una patologica gelosia, costituì per Pirandello un tormento continuo, che può essere visto come il germe della sua concezione dell’istituto familiare come «trappola» che imprigiona e soffoca l’uomo (è sempre scorretto supporre rapporti deterministici tra gli eventi biografici e i temi di uno scrittore, però le esperienze della vita forniscono inevitabilmente stimoli, occasioni, materiali destinati ad essere elaborati dalla scrittura letteraria). Con la perdita delle rendite mutò anche la condizione sociale di Pirandello, che fu costretto ad integrare il non lauto stipendio di professore intensificando la sua produzione di novelle e romanzi, che fra il 1904 e il 1915 si fece particolarmente fitta. Lavorò anche per l’industria cinematografica, che stava allora muovendo i primi passi, scrivendo soggetti per film. Anche l’esistenza di Pirandello dunque, come quella di Svevo e di altri scrittori del Novecento, fu segnata dall’esperienza della declassazione, del passaggio da una vita di agio borghese ad una condizione piccolo borghese, con i suoi disagi economici e le sue frustrazioni, un fenomeno tipico della situazione sociale del tempo e in particolar modo della condizione intellettuale. Anzi questo fatto non fu senza influenze sulle concezioni di Pirandello e sul suo atteggiamento verso la società: gli fornì lo spunto per la rappresentazione del grigiore soffocante della vita piccolo borghese, da lui condotta in tante novelle, ma soprattutto rancore e l’insofferenza che ne derivavano acuirono sicuramente il suo rifiuto irrazionalistico e “anarchico” del meccanismo sociale alienante, sentito come «trappola metafisica in cui l’uomo si dibatte invano, cercando di riattingere alla spontaneità e immediatezza originarie della «vita». Lo scrittore raccolse poi via via in vari volumi le novelle pubblicate su giornali e riviste, ottenendo un buon successo di pubblico ma suscitando poca attenzione nella critica, che lo considerava un umorista “minore”, poco più che uno scrittore di consumo.

Dal 1910 Pirandello ebbe il primo contatto con il mondo teatrale, con la rappresentazione di due atti unici, Lumìe di Sicilia e La morsa, da parte della compagnia di Nino Martoglio a Roma. Dal 1915 la sua produzione teatrale si intensificò. In quell’anno venne messa in scena a Milano, dalla compagnia di Marco Praga, la prima commedia in tre atti, Se non così, risalente al 1896. Da quel momento Pirandello divenne soprattutto scrittore per il teatro, anche se non abbandonò mai la narrativa. Tra 1916 e il 918 scrisse e fece rappresentare una serie di drammi che modificavano profondamente il linguaggio della scena del tempo, Pensaci Giacomino! e Liolà (1916), Cosi è (se vi pare), II berretto a sonagli, II piacere dell’onestà (1917), II giuoco del parti (1918), che suscitarono nel pubblico e nella critica reazioni sconcertate. Erano anche gli anni della guerra. Pirandello, in nome delle sue posizioni patriottiche, aveva visto con favore l’intervento, considerandolo come una sorta di compimento del processo risorgimentale, ma la guerra incise dolorosamente sulla sua vita: il figlio Stefano, partito volontario, fu subito fatto prigioniero dagli Austriaci, e il padre si adoperò con ogni mezzo, ma invano, per la sua liberazione. In conseguenza del fatto la malattia mentale della moglie si aggravò, tanto che lo scrittore fu costretto a farla ricoverare in una casa di cura, dove la donna restò fino alla morte.

Dal 1920 il teatro di Pirandello cominciò a conoscere il successo di pubblico. Del 1921 sono i Sei personaggi in cerca d’autore, che rivoluzionavano radicalmente il linguaggio drammatico, suscitando dapprima reazioni furibonde negli spettatori, ma andando poi incontro ad un successo trionfale, anche all’estero. I drammi pirandelliani nel corso degli anni Venti e Trenta furono conosciuti e rappresentati in tutto mondo. La condizione dello scrittore ne fu profondamente modificata: abbandonò vita sedentaria e piccolo borghese del professore, lasciò nel 1922 la cattedra universitaria e si dedicò interamente al teatro, seguendo le compagnie nelle loro tournées in Europa e in America, vivendo direttamente la vita della scena e seguendo gli allestimenti dei suoi testi. Dal 1925 assunse la direzione del Teatro d’Arte a Roma, mettendo in scena spettacoli tratti da opere proprie ma anche di altri autori. Si legò sentimentalmente, ma in modo platonico, ad una giovane attrice della compagnia, Marta Abba, per la quale scrisse vari drammi. L’esperienza del Teatro d’Arte fu resa possibile anche dal finanziamento dello Stato. Pirandello, nel 1924, subito dopo il delitto Matteotti, si era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. La sua adesione al fascismo ebbe però caratteri ambigui e difficilmente definibili. Da un lato il suo conservatorismo politico e sociale lo spingeva a vedere nel fascismo una garanzia di ordine; dall’altro, invece, il suo spirito antiborghese induceva a scoprirvi l’affermazione di una genuina energia vitale che spazzava le forme fasulle e soffocanti della vita sociale dell’Italia postunitaria. Ben presto però dovette rendersi conto, col suo acuto senso critico, del carattere di vuota esteriorità del regime, della retorica pomposa dei suoi rituali ufficiali, e, pur evitando ogni forma di rottura o anche solo di dissenso (nel 1929 accettò ancora la nomina all’Accademia d’Italia), accentuò il suo distacco, che celava un sottile disprezzo. D’altronde la critica corrosiva delle istituzioni sociali e delle maschere da esse imposte, che era propria della visione pirandelliana, non poteva certo risparmiare il regime, che della falsità del meccanismo sociale era un esempio macroscopico.

Negli ultimi anni lo scrittore seguì particolarmente la pubblicazione organica delle sue opere, in numerosi volumi: le Novelle per un anno, che raccoglievano la sua produzione novellistica, e le Maschere nude, in cui venivano sistemati i testi drammatici. Nel 1934 gli venne assegnato il Premio Nobel per la letteratura, a consacrazione della sua fama mondiale. Era attento anche al cinema, pur essendo consapevole del pericolo che questa nuova forma di spettacolo costituiva per il teatro, e seguiva da vicino gli adattamenti cinematografici delle sue opere. Mentre negli stabilimenti di Cinecittà a Roma assisteva alle riprese di un film tratto dal suo romanzo II fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite e morì il 10 dicembre 1936, lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro teatrale, I giganti della montagna, in cui culminava una nuova fase della sua produzione drammatica, quella dei miti. Nelle sue ultime volontà aveva lasciato disposizioni per il funerale: “Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta”. E così fu fatto. Nel venticinquesimo anniversario della morte le sue ceneri furono tumulate nella villa de “Il Caos” (1961).


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